La Storia
La vita parrocchiale a S.Vittore, dopo la distruzione a causa della guerra ha ripreso con un certo ordine e ufficialmente il 13 dicembre 1948, cinquant’anni fa. quando l’allora Arcivescovo di Ravenna Giacomo Lercaro conferì il possesso parrocchiale al nuovo parroco don Giovanni Baldini. Il luogo, non fu una chiesa e neppure una casa, ma la ex lavanderia del Lazzaretto Comunale g.c.
Un piccolo gruppo di persone, con tanta nostalgia dell’attività molto intensa che avevano svolto nei locali della vecchia parrocchia distrutta, si mise al lavoro con il nuovo parroco. Il lavoro non mancava perchè mancava tutto sia per la popolazione che usciva dalla guerra con tutto distrutto dalle bombe, sia per la chiesa. Della vecchia chiesa , canonica, oratorio , opere parrocchiali ecc… non era rimasto che un enorme mucchio di macerie. La Curia aveva già venduto anche il terreno su cui giacevano le macerie all’amministrazione dell’Ospizio Baronio , distrutto anch’esso nella sede di viale Farini . Per il nuovo terreno su cui ricostruire non c’era che una promessa di vendita non ancora perfezionata. Il terreno era a trecento metri fuori delle mura, e quindi fuori parrocchia, perchè si era previsto di estendere il territorio parrocchiale all’esterno della città, a carico delle parrocchie limitrofe di S.Biagio e SS.Simone e Giuda. Così che non c’erano neppure le macerie e quindi il diritto e la possibilità di frugare fra di esse alla ricerca di qualche ricordo del glorioso passato. Il nuovo terreno era occupato da un orto che il coltivatore non voleva cedere in base alle nuove leggi sui contratti agrari; e giustamente perchè quella era la sua sola sostanza per vivere. La Curia non lo aveva previsto, e quello fu il primo problema per il nuovo parroco, indennizzare il coltivatore affinchè desse la disponibilità del terreno stesso. Poichè i redditi del beneficio si sarebbero maturati solo nel novembre dell’anno successivo , ed eravamo a dicembre , non c’era neppure una lira, per cui per riscattare il diritto sul terreno, una volta acquistato, il nuovo parroco dovette accollarsi un debito.
Questi furono gli inizi.
In quelle condizioni ci si rivolse al Comune per ottenere in uso quel locale del vecchio lazzaretto, l’unico locale esterno ad esso perchè il lazzaretto doveva essere conservato per ogni eventuale evenienza. La stanza , se così si poteva chiamare, era in condizioni spaventose di abbandono. Anche lì la guerra aveva fatto i suoi danni: tutti i vetri rotti, il soffitto crollato e i ragni avevano teso tante insidie che , quando furono consegnate la chiavi, aperta la porta, non fu possibile entrarvi.
Erano i primi giorni di ottobre dell’anno 1948.
Altri lavori e altri debiti a cui nessuno pensava , e la popolazione da una parte e il Vescovo dall’altra facevano pressione affinchè si cominciasse almeno una oarvenza di attività pastorale.
Non un altare, nè un calice , nè un …panno, nè una panca o una sedia.
Questi furono gli inizi. Tutti compiangevano ma gli ostacoli da superare furono infiniti. Ma era una sorte comune determinata dalla guerra e quindi bisognò non piangere ma tirarsi su le maniche.
Domenica 13 dicembre, al conferimento del possesso parrocchiale il discorso di Mons.Lercaro si svolse in questi termini: “qui non ci sono nè chiavi della chiesa , nè campanile, nè confessionale nè tabernacolo; non posso darti altro che l’incarico di provvedere a tutto. C’è un bel gruppo di famiglie povere a tanti bambini.” Quella era la parrocchia in una dimensione che la Chiesa ancora nei suoi canoni non conosceva, ma il nuovo parroco doveva progressivamente scoprire e sperimentare sulla propria pelle.
Ma rifacciamoci da capo.
L’antica parrocchia di S.Vittore, che ora giaceva in quelle condizioni, era stata con molta probabilità il più antico luogo o centro di culto della Ravenna storica . E’ ricordata certamente in un papiro conservato nella Biblioteca della casa reale di Francia, scritto a Ravenna nell’anno 565 dove la chiesa è detta “antica e parochiale”. Questo termine non ha certo il significato attuale , e altro non significa se non che era posta in una località, un luogo abitato, fuori della città, e insieme ad altre abitazioni che in essa trovavano il centro della propria attività, che probabilmente era la pesca. Lo storico cardinale Cesare Baronio , che ha stampato il papiro negli Annales ecclesiastici ( 1588 – 1607); fa l’ipotesi dell’anno 303 come inizio del culto cristiano in questa località. Culto palese; si può andare ancora più indietro per gli inizi del culto clandestino: Non certo catacombale, ma privato e spontaneo sì. Il luogo è ancora oggi una specie di promontorio, un banco di sabbia, una grossa duna formatasi alla foce del fiume Montone che qui sboccava in mare e confondeva le sue acque con quelle del Po, allora detto Padusa e più tardi anche Fossa Sconti o Ascona, la parte che lambiva la parrocchia e da cui si entrava in città con le piccole barche da pesca. .
La chiesa di S.Vittore non è mai stata sepolta dalle acque, se si eccettua l’alluvione del 1600 che invase l’intero territorio. Le sue fondamenta sono sempre state pressochè al livello primitivo , come si rilevò in occasione degli scavi fatti all’inizio di questo secolo, a differenza delle altre Basiliche ravennati e i Battisteri che sono tutt’ora sepolti sotto metri di fango. Qui approdavano e transitavano le navi ( barche ) che dall’Oriente si avventuravano verso il nord attraverso la via d’acqua del Po o quelli che Plinio chiamava i “sette mari”, le ampie lagune di cui ci sono ancora tracce anche lontano da qui, fino a Mantova e Piacenza e le località si chiamano tutt’ora Portonovo, Bomporto , ma anche Lugo e simili. Scali necessari almeno in salita, controcorrente , quando le barche dovevano farsi trainare da cavalli .La barca greca affiorata in questi giorni a poche centinaia di metri dalla Chiesa apparteneva a quelle flotte che di qui passavano per entrare nei “sette mari” per risalirli verso nord.
Questo luogo non è Ravenna. Ravenna, Cesarea e Classe, la triplice città è molto più a sud, lungo il corso di quel Ramo del Po che Augusto imperatore ha fatto tracciare parallelamente al mare per alimentare il suo porto militare. Ravenna , l’antica città rivale di Roma qui in oriente sul mare detto ancora Ionio è laggiù lontana chiusa da robuste mura . La zona di S.Vittore ( questo nome verrà molto più avanti ) è separata da quella da molti corsi d’acqua ed ha i suoi centri di interesse rivolti più al mare, al corso dei fiumi, ed ha una popolazione dedita alle attività della pesca, dell’agricoltura del commercio e della cantieristica. Una tradizione… portuale è sopravvissuta fino agli anni recenti: gli uomini lavorano nel porto per il carico e scarico delle merci ed il trasbordo di queste da una nave all’altra in molte occasioni. E anche i bambini vanno nel porto a raccattare qualcosa di utile alla famiglia e ad alleviare i morsi della fame e della sete , rimediando spesso grosse sbornie.
Il tempo delle origini con una certa consistenza può essere stato quello dei Severi, alla fine del 2° secolo quando gruppi etnici orientali e africani già evangelizzati si insediano nelle periferie di questa città. La località resta fuori dall’influsso dell’impero in condizioni di quasi autonomia. Ha moneta propria e rivendica una dignità pari a Roma e quella reazione antiimperiale che già si manifesta sotto Diocleziano la contamina e riduce il culto dell’Imperatore e del paganesimo in generale. Certamente dopo Costantino a Ravenna, quando il cristianesimo si appropria dei locali dediti al culto pagano, la comunità esistente su queste rive, per il prestigio che le viene di comunità libera, moderna per quel tempo, emerge in spazi pubblici con il proprio culto.
Quando è arrivato il cristianesimo a Ravenna e cioè qui su questa spiaggia? Si può pensare che come Pietro e Paolo risalirono il Tirreno , giungendo fino a Roma ( e perchè non oltre? ), Paolo portato in catene, e Pietro vi giunse come libero cittadino, così altri che risalivano abitualmente quel mare che allora si chiamava Ionio, giunsero qui, lungo quella via commerciale di grande interesse che collegava le rive del Mar nero all’Europa del nord. Una via commerciale protetta che faceva capo proprio a Ravenna e a questa foce della Padusa che era la porta per la navigazione interna.
Quando , al tempo di Diocleziano imperatore , ( 284 – 305 ) egli infierisce contro i cristiani con una durissima persecuzione (editto di Nicomedia (303) ) , questa località è già idonea per ospitare le reliquie dei martiri , insieme a cristiani fuggiaschi e da loro trasportate in questa “ zona franca” sulle barche che qui transitavano dirette a nord. Il mare e la povertà e questa popolazione accogliente, a cui non era simpatico Diocleziano per il fiscalismo che stava istituendo, invadendo gli spazi delle antiche libertà , e forse anche la fede, affratellava questa gente. Anch’egli aveva imposto la propria immagine per l’adorazione, usando così la religione a scopo di potere, e quindi considerava nemici dell’Impero coloro che rifiutavano alla sua immagine gli onori religiosi. Come era accaduto ai tempi di Domiziano, i tempi dell’Apocalisse , scritta proprio nella visione della fine tragica di quell’ imperatore blasfemo. La Chiesa non aveva dimenticato quella esperienza.
All’inizio non fu certo una Basilica, ma uno o due locali ampi nei quali la prima comunità cristiana si radunava promiscuamente con altre comunità e vi aveva instaurato il culto. Se anche l’editto di Costantino è soltanto del 313, nulla impedisce che qui ci fosse prima di quella data una prima forma di culto cristiano, che poi ha preso più spazio e visibilità nei tempi di legittimazione. Due fatti fanno pensare a questo: La pianta della Chiesa era composta di due corpi affacciati, quello a destra entrando formato da cinque pilastri e quello a sinistra di sei pilastri. I due corpi siano stati assemblati. La navatella di sinistra era di ml.2,86 mentre quella di destra ml.3,94. Tutto fa pensare che questi due corpi non avevano nulla in comune e forse non furono neppure coevi. Non si può pensare che uno sia stato costruito di proposito di fronte all’altro, perchè nel caso i pilastri sarebbero stati di numero uguale. Quindi la presenza come luogo di culto prima dell’anno 303 può essere largamente ammissibile. Luogo di culto che dopo l’anno 313, quando si è usciti dalla clandestinità , ha subìto ampliamenti e riconoscimento.
L’altro motivo che legittima l’ipotesi è la molteplicità dei martiri che qui sono stati venerati e cioè Valentino, Solutore , Bonifacio, Onorato, Teodora ecc.., tutti di epoca romana. Nella chiesa era custodito anche un sarcofago del 3° secolo,di marmo greco precristiano, il quale probabilmente era stato qui portato insieme con reliquie di martiri cristiani dell’Oriente e del nord dell’Africa.
La città di Ravenna in quel tempo era lontana da qui. La città quadrata murata da Tiberio imperatore, non si spingeva oltre l’attuale via Cavour. Fuori, corsi dì acqua, acquitrini, valle, come hanno dimostrato i pozzi stratigrafici scavati di recente nella zona di Via Morigia. Anche le vie d’acqua che collegano la città al nord attraverso le quali si affaccerà a Ravenna l’imperatore Onorio in fuga da Milano, alla ricerca di un posto più sicuro si spingono al nord dall’attuale via Canalazzo in su. La zona di S.Vittore è ad est e più affacciata al mare e interessata alla attività economica della caccia e della pesca, destinata alla sopravvivenza della città.
Quando Onorio trasferisce la capitale a Ravenna negli ultimi anni del 4° secolo e investe con la nuova città bizantina la zona est di Ravenna sarà cinta da nuove mura nuove mura, quelle appunto bizantine, e la comunità cristiana di S. Vittore , che ancora non si chiama così, rappresenta il punto estremo verso mare , di questo insediamento nuovo. Le mura bizantine si arrestano proprio contro i suoi contrafforti, dove comincia il mare e continuano ad approdare sia le barche locali per la pesca che quelle in transito. L’imperatore pone nella zona le sue truppe per la difesa e coinvolge quel luogo di culto che così diventa Basilica ( e cioè chiesa imperiale) e ai Santi che già vi si venerano aggiunge S.Vittore, il martire sotto la protezione del quale ha posto le sue truppe fin da Milano dove gli aveva dedicato ben due chiese, quella centrale, cosiddetta “al corpo” e quella più esterna detta “alla porta”. E’ molto probabile che in quel periodo, prima del 423 ( morte di Onorio ) la Basilica abbia assunto la forma definitiva che conservava ancora, grazie all’intelligente rifacimento dal 1907,al momento della distruzione, con abside poligonale. Siamo allora ai primi anni del 5° secolo. Non prima del 402, anno della vittoria di Pollenzo . che Onorio attribuisce alla protezione di S.Vittore.
Di queste chiese, molto simili fra loro, Onorio e altri dopo di lui, di parte romana, ne hanno costruite molte in ogni luogo dove per ragioni strategiche veniva posto un campo militare , come ad Aquileia, a Cesena, sulla strada per Riolo terme, a S.Vittore alle chiuse nelle Marche, ecc.. Sembra che la Basilica di Onorio sia stata consacrata il giorno 14 di maggio.
A conclusione delle ipotesi sopra formulate voglio anch’io citare qui la lapide conservata nell’ardica ricostruita di S,Vittore ( ma ora perduta ) che diceva:
Hanc olim tenuere domum simulacra deorum
Haec divo quarta Victori aetate dicatur.
E cioè : “questo fabbricato aveva accolto un tempo le immagini degli dei.
Esso nel 4° secolo viene dedicato a San Vittore.
La chiesa è popolare e centro di interesse dei pescatori, i quali attorno ad essa continuano ad attraccare fino al 1600, e a fare il mercato del pesce, certamente per antico diritto o consuetudine. L’ingresso attraverso le mura bizantine avveniva attraverso un grosso fornice , di cui c’è ancora traccia nella mura, attraverso una via d’acqua chiamata fossa Sconti. La mura proseguiva fino sul lido e ad essa si appoggiarono nel 1500 i veneziani per costruire la Rocca Brancaleone A quel punto però il mare era già assai lontano. L’unico accesso era il fornice aperto nelle mura nei presso della Basilica e del porticciolo che la circondava.
L’ attuale porta fu aperta nelle mura solo nel 1511 da Papa Giulio 2° con il nome di porta Anastasia. e solo più tardi acquista grande importanza per il rapporto con la campagna per il rifornimento dei viveri. A quel punto già la grande via d’acqua scavata da Augusto per collegare il Po al porto di classe non esisteva più.
C’è memoria che dal 1160 al 1245 o oltre fino 1343 nella chiesa si fa la scola piscatorum . La Casa matha o società dei pescatori (che già assume contratti collettivi di pesca ) la tiene come sede e vi redige i suoi atti.
In queste condizioni si attraversa il medio evo e la chiesa subisce varie trasformazioni e viene ridotta ad una unica sala. L’Arcivescovo Boncompagni negli atti di sacra visita del 30 maggio 1591 ( Tomo 2° pag.46 ) afferma che per l’antichità, essendo le navate laterali cadenti, furono distrutte.
Il territorio della parrocchia che ormai aveva giurisdizione su un territorio, si estende senza limiti fuori delle mura e fino al porto che allora si è allontanato per chilometri. Sono le aree vallive indefinite fino a quando i Papi non procedono alle opere di bonifica con il fascio di canali che tutt’ora circondano la città a Nord. Quando nel 1591 viene eretta la Chiesa di S.Biagio, ad essa viene assegnato il territorio esterno alle mura “già appartenente alle parrocchie di S. Giovanni e Paolo, S. Eufemia , S. Croce e S.Vittore” e l’antica parrocchia rimane chiusa all’interno delle mura. Ad essa viene attribuito il territorio della Chiesa di S. Eustachio . la chiesa viene alienata e la devozione a quel santo viene portata nella Basilica . Molti benefici e restauri vengono fatti alla Chiesa dal Parroco Giuseppe Maria Pascoli ( 1674 – 1706 ) Egli bonifica le aree circostanti la Chiesa portando molte barche di terra, risana l’edificio facendo fare scavi e nuova pavimentazione, e fa eseguire dal Pittore forlivese Filippo Pasquali, noto a Ravenna per aver eseguito molte belle cose ad onore di S.Apollinare, la grande pala d’altare dove è raffigurato il Bambino Gesù fra le braccia di S.Giuseppe. che porge la corona del Martirio ai Santi Vittore ed Eustacchio.. L’anno è circa il 1696 e il costo dell’opera Lire 130. S. Eustacchio era venerato particolarmente dai cacciatori e pescatori, da quegli uomini che mantenevano la famiglia con i proventi della valle e del bosco. . La pala del Pasquali è rimasta sopra l’altare maggiore fino alla ricostruzione del 1907, quando, per dare spazio alla nuova sistemazione dell’abside, fu posta dall’allora parroco don Giulio Morelli sopra la porta di ingresso. Il Parroco don Giulio Fantini l’ha salvata da disastro della guerra. e il Parroco don G.Baldini l’ha fatta restaurare ed ora, riportata all’antico splendore con un paziente lavoro, è collocata nella cappella del SS. Sacramento posta a sinistra entrando nella nuova Chiesa.
Le dimensioni della Basilica , rilevate dopo la ricostruzione del 1907, che fu rifatta sulle antiche fondamenta erano diml.23,15 di lunghezza dall’abside alla porta, la larghezza comprendendo le navate laterali era ml.16,45; le navatelle erano, quella di destra ml.2,86, e quella di sinistra 3,94.
LA NUOVA CHIESA.
Si potrebbero raccogliere da varie fonti notizie sulla Parrocchia nei secoli successivi ma altro qui non voglio ricordare che l’elenco dei sacerdoti che hanno retto la parrocchia dal Concilio di Trento ( 1545 – 1563 ) ad oggi come si può desumere dagli stati d’anime che essi hanno lasciato nell’Archivio parrocchiale quasi anno per anno.
Dai documenti esistenti presso l’Archivio arcivescovile si potrebbero recuperare anche i nomi di altri prima di loro, ma prima di quel Concilio i sacerdoti sono chiamati solo con il nome.
Ressero la Basilica si S, Vittore:
Don Francesco CAPELANO 1567
Don Antonio FERRONI 570
Don Lorenzo EREDI 1579
Don Pietro TOMASI 1625
Don Giuseppe Maria PASCOLI 1674
Don Sante DEL SALE 1707 gennaio
Don Andrea MICCOLI 1707 novembre
Don Sebastiano BALESTRA 1709
Don Domenico VICARI 1719
( Dal 1722 condivide la pastorale in S.Vittore Don Giacomo BABINI, Nipote di Don Domenico Vicari, fa uno stato d’anime che il vecchio zio firma soltanto.)
Don Epimenio MICCOLI 1738
Don Francesco NISI 1744
Don Eustachio SOPRANI 1763
Don Felice RASI 1786
Don Marco CUCCHI 1821
( Nel 1806 mentre era parroco don Felice RASI la Parrocchia di S. Vittore fu soppressa, la Chiesa fu chiusa, il Parroco continuò ad abitare la Canonica e ad occuparsi del fedeli che però radunava nelle limitrofa Chiesa di S.Clemente in S. Giovanni BATTISTA. Anche l’Archivio fu trasferito presso la vicina parrocchia e molti documenti non tornarono più. Furono poi distrutti anch’essi nel corso della guerra del 1943 per la distruzione totale della canonica e l’incendio dell’ Archivio.
Quando nel 1831, con la fine di Napoleone , la Parrocchia venne ripristinata già al RASI era successo il CUCCHI , che la resse fino al 1867. Nel 1826 in regime di soppressione il Parroco CUCCHI stila un inventario della Parrocchia e sotto la sua reggenza stila un altro inventario nel 1828 don Angelo MONTANARI.
Don Giuseppe CAVALLI 1867 – 1868
Don Giuseppe RAVAGLIA 1868 fino 5/07/1900
Don Pietro TRIOSSI 1900 per 6 mesi
Don Giulio MORELLI DAL 13/01/1901
Don Giulio FANTINI Dal 22 gennaio 1926 al 4 settembre 1944.
Dopo la interruzione a causa della guerra e della distruzione di tutto il complesso la Parrocchia viene consegnata a Don Giovanni BALDINI il 12 Dicembre 1948 al 7 ottobre 2004 giorno della sua morte
Don Christian Cerasa Dal 25 settembre 2005 al 28 Novembre 2014
Don Claudio Giorgioni Dal 29 Novembre 2014
Un particolare ricordo meritano la ricostruzione del 1907 e la distruzione del 1944.
Quando don Giulio Morelli giunse in Parrocchia la Chiesa era in condizioni pietose. Era il 13 gennaio 1901. Ridotta ad un unico vano con molti fabbricati che ormai ostruivano l’ingresso. Tutto, anche la casa canonica, era labente: mancavano locali per le opere parrocchiali e per i ragazzi non c’era che un vasto cortile adiacente all’orto della Parrocchia.
Don Giulio aveva una grande esperienza di oratorio, avendo trascorso un lungo periodo con Don Buzzi in Via Nino Bixio. Aveva conosciuto la forza educativa del Teatro e della scuola di lavoro. Aveva seguito con intelligenza l’azione di don Bosco a Torino e per prima cosa ricorse a questi mezzi pastorali per la cura della gioventù. S, Vittore era una palestra interessante. I ragazzini senza scuola, sulla strada, spesso figli di etilisti e ubriaconi a loro volta fin dalla prima infanzia. L’anticlericalismo predicato fra i poveri , strumento per il potere dei partiti del tempo, aveva fatto strage nella zona e di questo aveva fatto esperienza fin dal suo primo ingresso. D’altra parte i ragazzi non avevano colpa perchè quella era la zona riconosciuta del vizio e della miseria di tutta la città e quindi era come una resa al destino. A questo lui però tentò subito di reagire.
Incominciò con tutto il coraggio che si ritrovava e nel 1904 è già in piena attività. Teatro e scuola di lavoro femminile. Sono la sua prima fatica. Contemporaneamente, ma non è facile capire come ci sia riuscito, riesce a coinvolgere la Soprintendenza ai monumenti e il ministro Corrado Ricci , ravennate nella ricostruzione della Chiesa.
Così è descritta la Chiesa nel giornalino dei Rifiuti Giugno 1906: “..pavimentazione logora dal tempo e ammuffita, le pareti umide e diroccate,, la travatura irregolare e rovinosa, la nessuna traccia del monumento bizantino già più volte deturpato e dalla costruzione di quattro grandi finestre rettangolari e da un arco barocco, nonché dal muro che nascondeva interamente l’abside; le due cappelle laterali goffe e volgarissime in sostituzione delle antiche navi…”
.La Chiesa e i fabbricati addossati vengono, demoliti si ritrovano le basi dei muri perimertrali abbandonati nel 1500 e si ricostruisce con la maggiore fedeltà possibile. I mezzi , a parte quelli disposti dal Ministero il Parroco li trova istituendo una piccola industria che potremmo chiamare di antiquariato, ma che egli chiamò “ Opera dei rifiuti”. Con questa indusse molte famiglie ravennati a frugare nei soffitti fra le cose abbandonate e a disfarsi di ciò che non si usava più. L’attività di cernita e messa in vendita che egli svolge personalmente e con la collaborazione di buone persone e di poveri che retribuisce modestamente, rende abbastanza. Fra il 19 marzo 1906, data in cui la Chiesa viene chiusa per la demolizione, e il 14 dicembre 1907, quando viene solennemente riaperta e inaugurata, si svolgono i lavori e molte ricerche archeologiche. L’autore del diario di quegli scavi fu don Giovanni Guberti, cappellano , poi parroco a Savarna e a Classe.
Sovrintendente ai lavori il Morelli ringrazia il Cav. Ing. Architetto Domenico MAIOLI che era subentrato alla guida dell’ufficio Ravennate mentre Corrado RICCI era divenuto inistro della Pubblica Istruzione a cui competeva anche la cura dei Monumenti.
Mons:Morelli volle ornare l’abside con un mosaico dipinto che riproduceva “mosaici già esistenti in S.Agata e in S. Michele in Africisco e parte ora esistenti nelle nostre Basiliche”.
Risorgeva così l’antica ravennate, la prima ad essere insignita del titolo di Basilica, mentre le altre, Ursiana, S.Giovanni Ev. S.Agata ecc.., sono nate solo dopo un secolo.
Il giorno della distruzione della antica Basilica di S.Vittore è il 4 settembre 1944.
Così lo descrive il Parroco nel diario:
4 settembre 1944
“Nella serata, circa alle 9 ore, uno stormo di bombardieri, venendo dal mare, con precedente getto di bengala, sganciano sulla città numerose bombe di medio e grosso calibro. Un grappolo di queste colpisce in pieno la Chiesa che resta totalmente distrutta. Solo dell’abside restano in piedi i muri sino all’altezza di metri 2,50. Anche la canonica è danneggiata e crollata nella parte alta presso a V.G. Rossi. Resta in piedi il campanile benché lesionato nelle bifore, entro al quale , per miracolo, benché ferito e coperto di macerie, si è salvato il parroco con la famiglia.”
Così finiva quella Chiesa che da Onorio , l’imperatore d’Occidente, prima fra tutte le altre nella zona, ebbe il titolo di Basilica o chiesa dell’Imperatore.. S. Giovanni evangelista, S.Apollinare in Classe verranno un secolo dopo.
Alla distruzione non si sottrasse nulla e neppure il terreno, Anche le case circostanti furono praticamente distrutte tutte. In Via mura di porta Serrata, Via Anastagi, Via S.Vittore , via Pier Traversari e via Pietro Alighieri, molte le case demolite e tutte lesionate Ancora oggi si possono notare larghi squarci di aree non ricostruite. La popolazione sopravvissuta fu costretta ad allontanarsi nelle campagne e cessò ogni rapporto con la parrocchia.
Negli anni 1945 e 1946 si celebra la S. Messa in locali precari, presso le suore Ghiselli , in parte della Chiesa di S. Giovanni Battista, presso le suore cappuccine, e nella chiesa del convento, a partire dal 19 maggio 1946.Il 16 novembre di quell’anno viene venduto il terreno su cui sorgeva la chiesa e così si decide che la vecchia Basilica non sarà ricostruita. Solo il 30 marzo del seguente anno 1947 si provvede il nuovo terreno fuori Porta Serrata ma l’area è occupata da un coltivatore che non intende cederla in base alla legge che congela i contratti agrari. Anche le macerie che giacciono sul terreno sono cedute e non è possibile fare scavi e ricerche.. L’area della Chiesa per circa 700 mq. viene ceduta gratuitamente in quanto gravata da vincolo da parte della Soprintendenza ai monumenti e quindi non più edificabile. Il Parroco nota che i mq. del nuovo terreno sono 5.000 a confronto con i 4.120 ceduti ma non osserva che mentre il vecchio terreno ha quattro fronti stradali il nuovo ne ha uno appena, e quindi grande è il danno economico , come sarà messo inutilmente in rilievo dal nuovo parroco.
Non rimane nulla dell’arredo eccetto l’archivio e la grande pala d’altare di Filippo Pasquali, lesionata e in cattive condizioni a causa delle vicissitudini belliche. Queste cose sono state conservate nel magazzino del Seminario fortunosamente rimasto incolume. Il Parroco don Giulio Fantini rinuncia alla Parrocchia il 7 giugno 1948 e abbandona completamente l’attività.
Il 26 settembre viene nominato il nuovo Parroco a cui Mons. G. Lercaro, nuovo arcivescovo conferisse il possesso il 13 dicembre dello stesso anno , in pieno inverno con neve e ghiaccio in terra, in un locale precario presso il Lazzaretto comunale in Via S.Alberto.
Gli inizi furono difficili anche se la popolazione premeva perché si riprendesse l’attività.
Mezzi non ce n’erano di alcun genere. Nè un altare, una panca , una immagine, un calice ecc.. Nulla di nulla, e il locale concesso dal comune con tutti i vetri rotti , il soffitto sfondato e le ragnatele che pendevano dal soffitto fino a terra. Una piccola area di accesso era piena di macerie e rifiuti, coperta da erbacce. Era d’inverno e neve e ghiaccio quell’anno furono abbondanti. Nel mese di ottobre si fecero i lavori di ripristino e si rintracciò anche una antica campana , sopravvissuta perché storica alla requisizione fascista prima ( 25 giugno 1943: fu requisita solo la maggiore delle tre di recente fusione , quella antica , fusa nel 1522, porta ancora scritto: Jesus Mariae filius ) e alla fine del campanile , successivamente. Fu issata fra un trave e un pilastro per l’occasione del 13 dicembre, quando ci fu la visita dell’Arcivescovo fece la sua bella figura e ne annunciò l’arrivo con il suo suono antico.
Il Parroco abitava lontano e gli fu concesso un piccolo appartamento in un complesso di case popolari in costruzione, dove potè trasferirsi potè trasferirsi nel maggio 1949. Due stanze da letto, pranzo , cucina e letto per il parroco, perché nella più piccola delle due stanze da letto fu necessario mettere una parvenza di studio.
– La ricostruzione.
L’urgenza, dovremmo dire la fretta , forse combinò qualche inconveniente.
Il Parroco Fantini annota in data 15 febbraio 1948 che il progetto di ricostruzione “redatto dal ing . Poggiali di Ravenna e dal Arch. Arata di Piacenza parte per l’approvazione governativa”. Previsti 52 milioni di spesa. L’ing. Enrico Poggiali era l’ex ingegnere capo della Provincia e l’Architetto Giulio Arata, di Piacenza , aveva svolto un notevole lavoro a Ravenna per la costruzione del nuovo Palazzo della provincia , Piazza Caduti e piazza S.Francesco. L’abbinamento era felice sotto il profilo architettonico, come meritava la ricostruzione della antica Basilica. Purtroppo però tutto il demolito, casa canonica, case del beneficio adiacenti alla chiesa e lo stesso teatro parrocchiale costruito da Mons. Morelli come opera parrocchiale per la gioventù, tutto era stato inglobato in quel progetto e non c’erano più volumi disponibili. Non fu prevista alcuna ricostruzione delle opere parrocchiali. Quando il nuovo Parroco fece presente la cosa fu risposto che il progetto era partito e non era possibile fare alcuna variazione e per questo niente opere parrocchiali.
Il terreno indicato fuori Porta serrata per l’edificazione, anche dopo che il coltivatore l’aveva lasciato, dietro congruo compenso che il nuovo parroco dovette pagare in proprio, risultava piccolo e inadeguato a causa del traffico intenso che stava crescendo su quella strada di S.Alberto che lo lambiva, e quello era l’unico fronte stradale. Si impose allora la ricerca di un altro terreno più ampio e lo si trovò in una posizione più centrale alla parrocchia i confini della quale allora si estendevano verso est fino alla pineta mentre l’area prevista era quasi adiacente alla vicina parrocchia di S, Biagio, mentre il nuovo terreno si faceva preferire perché al centro ai piedi del cavalcavia , dal quale accedevano alla città gli abitanti della zona oltre la ferrovia. Era più ampio, 9.000 mq. circa e di minor costo. In particolare era più defilato dal traffico con minori rischi per i ragazzi che avrebbero frequentato la parrocchia
La permuta fu vantaggiosa così che fu possibile, con i denari avanzati, e molte aggiunte s’intende, iniziare a costruire sul nuovo terreno parte delle opere parrocchiali attualmente esistenti e trasferire ivi l’attività parrocchiale, in attesa del finanziamento della ricostruzione.
Si potè così, su progetto che l’arch. Renzo Strumia offrì gratuitamente, iniziare a costruire le opere parrocchiali fin dal 1953.
Fu possibile anche costruire su quel terreno una piccola casa, con la vendita di una casa residua del beneficio nella parte interna alla città. Così il parroco ebbe una casa per abitare adiacente ai nuovi locali e alla attività che cresceva in fretta.
Si respirava e si attendeva con più serenità e meno disagio la futura ricostruzione che si potè iniziare solo nel 1955.
In attesa si celebrava nei locali dell’Asilo, dove si accedeva con difficoltà. Ma la popolazione accorse superando sia i disagi costituiti dalla mancanza delle strade, sia l’opera di ostilità del Comunismo ateo che stava conquistando proprio in quel momento le periferie con la propria demagogia.
Con il primo stralcio di spesa si costruì la casa canonica, il campanile e l’ampia sagrestia, la quale ,con l’aggiunta di una stanza della casa , ebbe funzione di Chiesa.Si mise in opera anche la Cancellata in ferro recuperata dal vecchi terreno. La popolazione seguiva con amore e un certo orgoglio i lavori che assumevano una certa imponenza e restituivano alla Parrocchia la sua dignità.
Così fino al 1960. In quell’anno il secondo stralcio di spesa permise di dare il via alla sospirata ricostruzione della Chiesa. Si pose la prima pietra con l’intervento di Mons: Giuseppe Battaglia, Vescovo di Faenza e si iniziarono i lavori. Eseguiva i lavori l’Impresa Dell’Ing, Dario Zavaglia sotto la guida dell’Ufficio ricostruzione presieduto da Mons. Giuseppe Brasini. L’asilo già funzionava frequentato da un bel numero di ragazzi e così l’oratorio destinato particolarmente ai giovani.
L’inaugurazione della nuova Chiesa ebbe luogo il 14 maggio 1961 dell’arcivescovo Mons. Salvatore Baldassarri e dell’ allora Ministro dei Lavori pubblici On. Benigno Zaccagnini.
Il Parroco non poteva occuparsi solo di pietre e quello che urgeva era la ricostruzione morale, la comunità cristiana.
Per il nuovo parroco il problema non era solo la ricostruzione, le pietre, ma la popolazione, la comunità cristiana. Al vecchio piccolo territorio interno alla città era stata aggiunta una area vastissima , tolta lle parrocchie di S.Biagio e S:Simone e Giuda ed ora i confini si estendevano da via P. Alighieri a treponti, al fascio di canali di bonifica e oltre fino all’allora via Fiumetto, ora Guiccioli in confine con Camerlona, S. Alberto e Mandriole , per spingersi in confine con Porto Corsini lungo l’asta sinistra del Canale Candiano. Una vastissima zona con una popolazione eterogenea che non si conosceva, nè si poteva fare per tutti una stessa pastorale.
In particolare i ragazzi erano distribuiti su molti plessi scolastici.
Il primo lavoro fu conoscere il territorio , le famiglie e i problemi. Il Parroco girava per la Parrocchia a far catechismo nei luoghi più diversi, nelle famiglie, nelle scuole, nelle stalle e anche all’aperto. E così per la celebrazione dell’Eucarestia e per ammettere i bimbi alla Prima Comunione. Le famiglie gradivano l’incontro con il Parroco, il quale in quel momento, difficile sotto molti aspetti, rappresentava un punto di fiducia.
La zona agricola della grande periferia viveva in condizioni economiche discrete, ma la vecchia parrocchia interna alla città giaceva in condizione di grande disagio. La fame, il freddo, la mancanza di case attanagliavano molti , e fu il tempo della Conferenza S.Vincenzo, la quale fortunatamente aveva una antica tradizione e molte persone già organizzate conoscevano il metodo.
Visita alle famiglie, mensa per i poveri presso le suore Cappuccine , che si prestarono generosamente; Per i ragazzi oratorio e doposcuola con refezione e catechismo. Il Parroco sapeva che non doveva solo soccorrere ma preparare nuove leve e i ragazzi rappresentavano il futuro e quindi occorreva una catechesi appropriata e la sensibilizzazione delle famiglie. D’estate si andava tutti al mare o in montagna insieme con la collaborazione delle Suore di Carità e questo consolidava l’attività spirituale.
La provvidenza ci venne incontro e nel 1955 l’AGIP mineraria innalzò le prime torri di perforazione sul campo metanifero appena scoperto. La nuova attività investiva tutto il territorio della Parrocchia. Con questa attività affluì una popolazione nuova, la quale , per la diversa provenienza e la diversa preparazione e i problemi che portava con sè, impose un discorso nuovo, e un tipo nuovo di presenza al parroco stesso. Ai primi lavoratori che l’AGIP importò sul territorio, pendolari in parte e , se seguiti dalle famiglie alloggiati in qualche modo. fu necessaria una presenza assidua. Venivano da Cortemaggiore, da Crema, da Caviaga e avevano dietro una esperienza umana e di cantiere eccezionale, sconosciuta sul territorio.
Il rapporto con la parrocchia fu immediato e intenso. Ho celebrato spesso la S.Messa in cantiere: in sonda inizialmente poi in centro del Cantiere. Quando qualche anno dopo, iniziò anche lo sfruttamento chimico del metano e subentrarono successivamente ANIC PHILLIPS E CEMENTIFICIO l’On. Mattei mi pregò di fare una assistenza religiosa, ho avuto spazi disponibili in tutte e tre queste realtà, e di quelli mi sono servito con discrezione ma con assiduità. Per questo è stato necessario inventare un diverso metodo e linguaggio che ho dovuto inventare.
Purtroppo ben presto subentrò la conflittualità presso i nuovi stabilimenti. A Ravenna l’esperienza per questi conflitti sociali non c’era. Essi erano dettati da ostilità politica contro lo sviluppo economico. La mia posizione universalmente apprezzata fu di corresponsabilità nell’Azienda al fine di raggiungere insieme gli obiettivi di sviluppo che si profilavano grandiosi. Un servizio alla provvidenza che offriva alla città traguardi impensati. E i traguardi ci furono con il crescere dell’indotto , dei consumi e quindi della attività economica globale, ma particolarmente con lo sviluppo del Nuovo porto S.Vitale. A mio dire lavorare non era semplicemente guadagnarsi il proprio pane, ma preparare tempi attesi e fare uscire Ravenna dall’isolamento nel quale si era cacciata fin dal Medio evo. Predicavo una visione spirituale del lavoro, un servizio, un atto d’amore per la città e per le future generazioni. Occorrevano migliori condizioni di lavoro e sicurezza, case, mensa. ma tutte queste conquiste non potevano esserci subito. E le conquiste ci furono , benchè ritardate e complicate per la morte di E.Mattei, il protagonista principale di tutta questa vicenda.
La Messa era il momento do incontro col il Maestro che per la salvezza aveva dato la vita , e il piccolo gruppo di cristiani più sensibili iniziò l’azione di solidarietà aziendale: assistenza, scuola, animazione, accoglienza per gli operai sempre più numerosi che affluivano man mano che l’attività aumentava sia nei cantieri che nelle stabilimento. Spesso questi provenivano dalla campagna o dal piccolo artigianato o dalla scuola ( giovani senza alcuna esperienza di lavoro ) e quindi erano esposti a disagi e a stress indicibili a confronto con il nuovo tipo di lavoro.
Passarono anche quegli anni e sopravvennero delle collaborazioni: don Quinto dal seminario Onarmo di Bologna, i Padri Gesuiti, i Francescani e quello che era stato iniziato all’insegna dell’improvvisazione prese corpo e solidità in tre cappelle: il Villaggio su via Chiavica Romea, Presso il centro residenziale AGIP in Via Cefalonia e nella Cappella che avevamo costruito nella Pineta a ridosso dello Stabilimento ANIC.
Nell’ottobre 1962 ha inizio il Concilio Vaticano 2° e il 4 dicembre del 1963 esce la Sacrosanctum Concilium sulla riforma liturgica con quel paragrafo 48 dove era detto “Che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede…. ma partecipino all’azione sacra consapevolmente e attivamente..” . Questo preannunciava la Lumen Gentium dell’anno seguente ed esigeva un rinnovamento profondo dell’azione pastorale. Accantonare devozioni, piccole associazioni e interessi particolaristici e clericalismo per coinvolgere l’intera comunità nella azione di Chiesa: un impegno immane e una provocazione che mise a dura prova tutta la Chiesa. Occorreva forzare le comunità ad assumere direttamente responsabilità pastorale. I paragrafi 4°, 5° , 6° e 7° della Lumen gentium con “ i segni dei tempi”, l’invito a fare attenzione ai mutamenti sociali, non ci trovarono impreparati ma sensibili e felici.
Occorre attuare il rinnovamento liturgico , il nuovo rapporto con la parola di Dio e la corresponsabilità, Tutto questo produrrà un po’ di sconcerto iniziale negli anziani e una difficoltà a seguire da parte dei giovani. A quel punto lo sforzo pastorale è stato incentrare tutto sull’Eucarestia il mistero centrale sia della Liturgia che della Parola.
La creazione della nuova parrocchia S. Giuseppe lavoratore oltre ferrovia ha dimezzato il territorio della parrocchia e imposto nuovi metodi pastorali di fronte a nuovi insediamenti. La pastorale diretta espressamente al mondo del lavoro e ai suoi problemi non coinvolge più la parrocchia in modo diretto.
Nessun contributo fu previsto per le immagini. Per questo è stato necessario provvedere da parte del parroco il quale ha potuto godere della collaborazione di persone della parrocchia particolarmente capaci. D’accordo non abbiamo voluto immagini prese dal mercato, ma abbiamo creduto che fosse meglio farcele secondo la nostra fede.
Così sono nati i sei angeli cerofori che il papà Augusto e il figlio Mauro Bartolotti eseguirono, fra l’ammirazione generale, per essere l’espressione della preghiera di tutti attorno al grande Crocifisso, opera tutta del Padre il sig.Augusto con la partecipazione corale di tutta la famiglia. Fu veramente un avvenimento.
Le due vetrate non sono opera locale ma di un artista milanese, Sig. Tonti, il quale però cercò di esprimere quello che noi volevamo e cioè i due grandi sacrifici che illustrarono profeticamente quello centrale del Cristo. Il Sacrificio di Abele che offre il dono della innocenza salvante, l’agnello che percorrerà tutta la Scrittura fino al Calvario dove egli stesso, Abele sarà la profezia del Cristo, la vittima sacrificata dal odio del fratello; e Melchisedek il sacerdote di Dio Altissimo che conforta Abramo di ritorno dopo lotta vittoriosa contro i suoi nemici, segno della presenza di Dio vicino a chi lotta per la salvezza. Questo cose si dovevano offrire alla contemplazione di coloro che celebravano la Messa.
L’altra opera è stata la Via crucis, realizzata ormai in pieno Concilio: Le scene in mosaico non rappresentano più la contemplazione delle sofferenze di Cristo, ma le sue scelte. Si parte dall’annuncio profetico ( il fuoco dell’Oreb, l’agnello pasquale, la vergine davidica che spunta come un fiore dalla radice di Jesse ) e cioè quello che rappresenta sia i protagonisti che le attese e le figure che illuminano tutto ciò che era nel piano di Dio in Cristo. Il secondo quadro rappresenta l’incarnazione di Gesù uomo e lavoratore nella sua casa. Il terzo lo scontro col male nel mondo che attenta alla persona umana, e la scelta di Cristo. Seguono, l’evangelizzazione, la proposta alternativa di Gesù ai poveri, e l’Eucarestia, e cioè il dono totale di sè di Gesù che inaugura la nuova umanità fondata sull’amore. Con questo Gesù libera ogni uomo da tutte le oppressioni rappresentate dai poteri di Pilato e del sinedrio, per restituire la piena dignità ad ogni uomo figlio di Dio a cominciare dai poveri.
Questa proposta incredibile costa il cammino della croce dentro tutta l’umanità come proposta di speranza. Condividono la sua proposta l’uomo della strada e gli amici Sul Calvario invece sarà solo a compiere volontariamente e per amore il suo dono e questo è il seme della resurrezione che rinnova l’umanità a partire da quella scelta e da quel dono. Il resto non è che maceria che giace a fare corona al vittorioso , come la tomba vuota. L’ultimo quadro ci riguarda: il testimone è passato a noi secondo la parola di Gesù: “ Come il Padre ha mandato me così io mando voi; rimanete nel mio amore; io sono con voi tutti i giorni fino al compimento della speranza.”
E’ la contemplazione di una storia vera vista dall’interno, dal cuore di Dio, ma anche una consegna impegnativa per una comunità cristiana inserita nel mondo come portatrice del progetto di salvezza del Padre. Una storia ancora in corso che ci vede protagonisti
Nedo del Bene è stato il mosaicista che ci ha sopportato per parecchi tempo nel suo piccolo laboratorio quando preparava , uno dopo l’altro i quadri, interpretando con pazienza ed arte mirabilmente le nostre esigenze. Merita un grazie per secoli e di non essere mai più dimenticato.
Mauro Bartolotti ci aveva preparato contemporaneamente una sorprendente annunciazione in terra cotta. Una opera che ha commosso tutti noi quando l’abbiamo riportata a casa dalla fornace e collocata sul muro un pezzetto alla volta. All’arte di Mauro allora anche quell’Angelo ( che riproduce le fattezze della sorella Anna ) ha dato un contributo, perchè quella immagine è uscita così dalla fornace , con quella diversità di colori che non si spiegano per una creta cotta senza particolari attenzioni fra i mattoni al fuoco della fornace.
Per un po’ ci siamo fermati lì, poi è venuto il mosaico della facciata. Un primo progetto che significasse il passaggio dal vecchio al nuovo è rimasto sulla carta. Il Lavoro eseguito vuole esprimere la vitalità della Chiesa di Cristo nel tempo, la forza della comunità cristiana, attestata sulla roccia biblica e sulla pietra del Calvario , fonte di grazia e di risurrezione. Ed è quello che intendevamo fondare costruendo l’edificio, come profezia di tempi nuovi, e non semplicemente un ammasso di mattoni più e meno disposti in bell’ordine.
Rimaneva incompleto il Battistero. Allora è arrivato Cesare Cardinale, un battiferro autodidatta che ha eseguito quella Sacra famiglia e la porta di ingresso, che ricorda il Battesimo di Gesù. Alla sig.na Casadei che produce vetri dipinti, abbiamo affidato il delicato compito di esprimere sulle tre finestrelle i doni che la Chiesa offre con amore al Battezzato e cioè le virtù della Fede, della Speranza e della Carità. Chi riceve il Battesimo, fatto grande , se rivede questo Battistero potrà ricordare quel che qui è avvenuto nel suo cuore di figlio di Dio. Questo è stato almeno il nostro intento,
Un capitolo a parte spetta al restauro dell’antica Pala d’altare che Filippo Pasquali dipinse sul finire dal 1600 proprio per questa Chiesa. Negli inventari esistenti presso l’Archivio parrocchiale si dice che il Parroco Giuseppe Maria Pascoli (1674 – 1706 ) fece eseguire questa pala per la Chiesa circa l’anno 1696 e la pagò con Lire 130. Deve essere l’ultima opera di quel pittore il quale morì nell’anno 1697 a soli 46 anni.
Quel pittore ha operato parecchio a Ravenna. E’ detto discepolo del Cignani ma del coetaneo e più anziano concittadino ha abbandonato quel tanto di barocco e di lezioso che affligge quel maestro, se lo è stato. Un periodo di permanenza a Roma lo ha avvicinato piuttosto alle possenti figure cinquecenteschi che ha avuto sotto gli occhi, il Guercino e i Carracci. Anche la scuola del Reni ha influito su di lui ma il maestro bolognese era al tramonto e il giovane pittore forlivese in proprio ha aggiunto un amore profondo per la natura che ha espresso potentemente nella figura di Eustacchio, uomo più nella natura a rappresentare l’uomo del popolo che guadagna da vivere per la famiglia immerso nei boschi e nelle valli che circondavano Ravenna. Il grande cervo nero che il pittore ha rappresentato davanti a lui e il “palazzolo”, caratteristica ravennate fra boschi lagune e pinete, rappresentano i tratti più originali della pala.
Questa pala , che ha subito grandi offese dalle vicende belliche ed era stata conservata in magazzino, ora è uscita splendida nei suoi freschi colori per opera di una diligente e volonterosa restauratrice, Angela Guerrini di Arte e Restauro di Ravenna. E’ quasi una resurrezione e quanti l’avevano dimenticata e la vedranno dovranno riconoscere in essa una delle più belle opere del 1600 che possiede il patrimonio artistico ravennate. Un giorno di gioia per tutti. E’ stata una fatica e una spesa interamente a carico del Parroco degna di essere notata negli annali di quella Ravenna che ha amore per l’arte.
Sarà collocata nella cappella del SS. Sacramento in condizioni ottimali per potersi conservare a lungo.